mercoledì 3 novembre 2010

Giornalino 30.10.2010: L'Editoriale Di Mik#17

Buonasera a tutti, ho saputo che sugli spalti questo giornalino è già stato protagonista di complimenti e critiche. Stasera mi sento di “osare” e ho scelto di mettere al centro del nostro quindicinale una foto che ho trovato su internet e che mi ha ricordato un episodio avvenuto davanti ai miei occhi qualche mattina fa.
Ero in metro, vagone affollatissimo. Fermata Loreto: il fiume di persone si riversa sulla banchina. Nel mezzo: una donna che si aggrappa agli “appositi sostegni” per non farsi trascinare. Sulla schiena: un fagotto con dentro un bambino.
Le passa accanto un uomo nero, uno di quelli di cui tanto ci parlavate da piccole. Sguardo da duro, passo convinto e calzino tamarro. Le si ferma vicino e dice: “Brava, non dimenticare la tua cultura”. Abbozza un sorriso e poi riprende il suo cammino, sospinto dalla massa metropolitana.
Tante cose mi hanno colpito di quella scena ma più di tutti lo speciale legame che si è creato, anche se solo per un secondo, tra due persone che si sono riconosciute tra la massa per la loro…cultura.
Cultura può sembrare un parolone invece sul dizionario compare “3 (antrop.) l'insieme dei valori, delle tradizioni e dei costumi che caratterizzano la vita sociale di un popolo”.
In questo periodo dove diverso è (ancora) nemico, antipatico, odiato e dove più si reclama l’integrazione più si ottiene lo scontro, sono stata felice di assistere alla manifestazione della diversità. Fino a che si penserà che il diverso è qualcosa di pericoloso non ci sarà integrazione. Il diverso è tale perché è qualcosa di nuovo, di non omologabile e non lo si deve per forza capire ma almeno accettare.
L’uomo nero ha parlato in italiano (un’altra cosa che mi ha fatto riflettere) e ha “invitato” la sua connazionale a non dimenticare le sue origini, i suoi valori. Fondamentalmente l’ha invitata a non cambiare. Nelle sue parole non c’era sentimento di rivalsa, non c’era polemica, non c’era ostentazione. C’era orgoglio.
Centinaia di persone mi sgattaiolavano a fianco, c’erano i soliti rumori meccanici, i muri grigi e luce al neon eppure mi sembrava di essere in un altro mondo. È difficile da spiegare senza cadere nel retorico. Forse semplicemente ho trovato quel breve scambio sociale molto dignitoso e carico di intensità emotiva. È come quando gioca la nazionale in una competizione europea o mondiale: si sente l’inno e ci si scioglie; un’antica melodia ci ricorda che facciamo parte di un qualcosa più grande di noi che magari non possiamo toccare ma che appena vediamo (o sentiamo) ci fa sentire parte di un qualcosa, ci da le nostre coordinate, il nostro spazio nel mondo: la nostra identità e la nostra cultura. Unici come noi.
In un mondo che diventa sempre più globale, dove accanto a noi in metro possiamo incontrare persone di continenti diversi senza spostarci, secondo me la bellezza sta proprio nella “diversità possibile”. Mi piaceva raccontarvi questo episodio perché ancora oggi spesso lo straniero è percepito come estraneo e pericoloso eppure non esiste un solo modo di vivere o un solo modo giusto di fare. Esistono le persone che rendono cariche di significato anche un semplice gesto universale come quello di andare in giro col proprio figlio. Bello così.

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